Parole fragilissime: sono queste che – ultimamente – mi intrigano.
Libertà, ad esempio. È a lei che ho dedicato il mio ultimo progetto, ho cercato di lei nelle insenature nascoste dei capolavori di Italo Calvino, ho provato a tradurla in domande brucianti da portare sul palco. E la risposta esaltante del pubblico è stata un applauso continuo alla libertà stessa, a quel bisogno di autodeterminarsi ma in sintonia con il mondo.
Adesso è il momento di un’altra parola ancor più delicata perché, forse, non esiste: felicità. Eppure c’è stato un momento in cui il nostro paese – e una gran parte del mondo – è apparso felice. Sono gli anni a cavallo del 1958, gli anni subito prima e subito dopo l’inizio del boom economico. La gente era – o sembrava – felice, carica di futuro negli occhi. Basta rivedere i film di quell’epoca, ascoltare le canzoni, ripercorrere i racconti di chi c’era. Anche i ceti meno abbienti sembravano felici. Sicuramente più felici dell’umanità contemporanea abitata da “passioni tristi”.
E se c’è un uomo che incarna tutto questo nel suo corpo, se c’è uno che con la sua voce, con la spinta vitale che ha abitato ogni suo passo, rappresenta appieno quegli anni, questo è Domenico Modugno.
Un ragazzo di una terra dimenticata da Dio – quella Puglia che sarebbe rimasta alla periferia del regno ancora per decenni, quando anche io la lasciai per cercare una vita artistica altrove – che parte all’avventura e si ritrova, dopo pochi anni, a insegnare a tutto il mondo a “volare”: apre la bocca e trascina via con quell’urlo irrefrenabile ogni residuo fosco del dopoguerra. Con una sola canzone rende l’intero occidente felice di esistere. Eppure lui sapeva di lavorare sull’effimero, sull’impalpabile ma, nonostante tutto, si ostinava a crederci: «Io voglio cantare la felicità. Anche se non esiste, mi voglio illudere che esista, devo credere che esista».
Proverò ad accostare la sua storia con tutta la cura possibile, per non tradire un uomo della mia terra, per non tradire la mia terra stessa e l’inno alla felicità che Domenico Modugno incarna. Proverò a farlo – come per Calvino – in musica e parole, ma questa volta i musicisti/compositori saranno con me sul palco.
Proverò a porre e a pormi domande urgenti sulla felicità, per indagare cosa rendeva quell’Italia di allora così capace di guardare al futuro e al prossimo con leggerezza e cosa, oggi, ci impedisce di continuare a farlo.