Molière mette in scena le vicende familiari del povero Argante, un ipocondriaco che si circonda di medici inetti e furbi farmacisti, ben contenti di alimentare le sue ansie per tornaconto personale. Argante è a tal punto prigioniero della sua paura, da voler maritare la figlia Angelica con il figlio
di un medico, benché la ragazza sia innamorata del giovane Cleante, in modo da avere così un dottore in famiglia sempre a sua disposizione.
Sua moglie Belinda (matrigna di Angelica) è una donna avida e meschina, che disprezza il marito e lascia che Argante, vittima di se stesso, diventi
il burattino di chi gli sta intorno. Ma grazie all’intervento della furba e affezionata serva Tonina e del fratello, Argante ordirà un inganno in grado di fargli aprire gli occhi sulla realtà che la circonda.
Note di regia
Il teatro come finzione, come strumento per dissimulare la realtà, fa il paio con l’idea di Argante di servirsi della malattia per non affrontare “i dardi dell’atroce fortuna”. Il malato immaginario ha più paura di vivere che di morire e il suo rifugiarsi nella malattia non è nient’altro che una fuga dai problemi, dalle prove che l’esistenza ti mette davanti.
La tradizione, commettendo forse una forzatura, ha accomunato la malattia con la vecchiaia, identificando di conseguenza il ruolo del malato con un attore anziano o addirittura vecchio, ma Molière lo scrive per se stesso quindi per un uomo sui 50 anni, proprio per queste ragioni un grande attore dell’età di Emilio Solfrizzi potrà restituire al testo un aspetto importantissimo e certe volte dimenticato: il rifiuto della propria esistenza.
La comicità di cui è intriso il capolavoro di Molière viene così esaltata dall’esplosione di vita che si fa tutt’intorno ad Argante e la sua continua fuga attraverso rimedi e cure di medici improbabili crea situazioni esilaranti. Una comicità che si avvicina al teatro dell’assurdo.
Molière, come tutti i giganti, con geniale intuizione anticipa modalità drammaturgiche che solo nel’900 vedranno la luce. Si ride, e anche tanto, ma come sempre l’uomo ride del dramma altrui per non affrontare il proprio.
Guglielmo Ferro